Da "LINKIESTA" un articolo interessante a titolo: "L’insostenibile lusso italiano di un aeroporto ogni 50 km". Ovviamente la prima immagine è dell'Aeroporto Catullo!!! Chissa mai perchè!!! Mahh!!

Da Google Alert ieri sera mi è arrivato questo articolo come sotto riprodotto e visto che l'articolo in questione inizia con una foto dell'Aeroporto Catullo, credo dobbiamo evidenziare questa INCHIESTA de... LINKIESTA.
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IL FEDERALISMO TRADITO
I
l viaggio de Linkiesta nei settori economici dove l’autonomia somiglia al localismo deteriore. Senza un federalismo vero, aeroporti, porti, fiere e università diventano infrastrutture di campanile. Non sempre le classi dirigenti locali sono meglio di quelle centrali.
Prima puntata: gli aeroporti
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L’aeroporto “Catullo” di Verona
L’aeroporto “Catullo” di Verona
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Al Nord c’è un aeroporto ogni 50 km. A guardare l’elenco dell’Enac, il regolatore dell’aviazione civile, se ne contano ben 17 tra Albenga e Trieste, passando per Milano, Venezia e Bologna. Che siano tanti non c’è dubbio, che siano troppi dipende dalla loro sostenibilità economica.
Dopo la direttiva comunitaria “cieli aperti” del 1997, che ha liberalizzato il settore, nel 2001 la riforma del Titolo V della Costituzione ha assegnato alle Regioni un ruolo di coordinamento sulle infrastrutture territoriali che spesso non ha funzionato. Creando situazioni paradossali come l’aeroporto di Salerno: 100 milioni buttati per far volare aerei con tasso di riempimento (load factor) vicino allo zero. Tra gli anni ’70 e ’80 gli scali autorizzati dall’Enac erano 41, ma è tra il ’90 e il 2000 – a cavallo della liberalizzazione – che salgono da 42 a 49, con l’inaugurazione di Aosta, Biella, Bolzano, Brescia, Padova, Tortolì e Vicenza, per poi scendere nuovamente a quota 46 nel 2011.
Stando alle elaborazioni dello scorso novembre del Bureau Van Dijk, negli ultimi bilanci d’esercizio (2009 e 2010) gli scali italiani hanno accumulato un rosso complessivo di 3,4 miliardi di euro. Il 32% delle quote è in mano a Comuni, Province e Regioni, sulle cui spalle grava dunque un debito di oltre 1,1 miliardi. Già nel 2010 lo “Studio sullo sviluppo futuro della rete aeroportuale nazionale quale componente strategica dell’organizzazione infrastrutturale del territorio”, commissionato dall’Enac a One Works, Nomisma e Kpmg evidenziava come la metà degli scali fosse da ridimensionare o addirittura chiudere per via dell’insufficiente bacino di traffico.
E invece continuano a nascerne di nuovi: l’ultimo, disegnato da Gae Aulenti e intitolato a San Francesco d’Assisi, è quello di Perugia, costato 42,5 milioni di euro, gran parte pubblici. «Ad ombreggiare le auto ci sono gli ulivi – ha fatto notare trionfalmente il sindaco Wladimiro Boccali (Pd) all’inaugurazione, lo scorso 10 novembre – simbolo della nostra storia e del nostro territorio e quando si atterra, qui, da una parte ti trovi lo skyline di Perugia e dall'altra la basilica di Assisi». La fiammante struttura di Pantelleria, che ha aperto i battenti lo scorso agosto, è invece costata 42 milioni, fondi europei come i 24 milioni del nuovo scalo di Lampedusa, inaugurato a luglio. Dal 2003 a oggi, disse in quell’occasione il numero uno dell’Enac, Vito Riggio, sono nati 12 aeroporti. Tra cui spicca il capolavoro Comiso (RG), inaugurato da D’Alema nel 2007 che lo definì «futuro volano non solo dell’economia, ma degli scambi interculturali con il mondo arabo che non deve vederci come dei nemici, ma come una civiltà con la quale vivere in pace». Peccato che, nonostante i 47 milioni di euro impiegati, il suo fu il primo e l’ultimo velivolo atterrato e decollato dalla struttura siciliana.
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L’esecutivo tecnico, senza successo, ha provato a riordinare il settore, sia un disegno di legge varato lo scorso ottobre contenente quella “clausola di supremazia” dello Stato sugli enti locali che ha suscitato la levata di scudi dei governatori, sia con il piano studiato dall’ex ministro Corrado Passera – declassato oggi a “linee guida” – per tentare di razionalizzare un sistema aeroportuale che, stando al Global Competitiveness Report 2012-2013 del World Economic Forum, è al 67mo posto nel mondo (su 144 Paesi) per qualità percepita.
Secondo il Transport Statistical Pocketbook della Commissione Europea (2011), la maggior parte degli aeroporti del Paese è formato mignon, ovvero vi transitano tra i 100mila e i 5 milioni di passeggeri l’anno. Tanto per fare un confronto, nel 2011 la tratta Linate – Fiumicino ha servito 1,5 milioni di persone, rispetto agli 8,3 milioni che hanno preso un treno tra Milano Centrale e Roma Termini, soltanto nei primi sei mesi di due anni fa. Un confronto impietoso, aggravato dalla sostanziale dipendenza dai vettori low cost.
Per Andrea Giuricin, fellow dell’Istituto Bruno Leoni, «in Italia manca un vero vettore di riferimento. Senza una compagnia che faccia hub and spoke, è impossibile sviluppare un aeroporto chiamato hub come è quello di Francoforte o Parigi. Alitalia ormai non è piu in grado di svolgere questo ruolo dal momento in cui è fallita l’alleanza con Klm dieci anni orsono, e poco si puo fare per cambiare questa situazione»
Lo confermano i dati Istat sul trasporto aereo in Italia nel 2011, diffusi lunedì: non solo che il traffico passeggeri è rimasto invariato (+0,2%) sul 2010, ma ha segnato un -6% sul 2007, ma «fra il 2003 e il 2011 è progressivamente scesa, dal 66 al 40%, la quota di utilizzo dei vettori italiani da parte dei passeggeri in arrivo e in partenza dagli aeroporti della Penisola». Una tendenza che, proprio per via dei low cost, «si è accentuata tra il 2007 e il 2011, con un calo di 16 punti percentuali».
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Passeggeri transitati per aeroporti italiani utilizzando un vettore italiano (Fonte: Istat)
Alle stesse conclusioni arriva anche uno studio dell’Iccsai, think tank dell’Università di Bergamo con sede a Orio al Serio, lo scalo orobico che rappresenta una storia di successo nata fuori da ogni pianificazione politica – il “Caravaggio” è passato in una decina d’anni da 1,2 a 8,3 milioni di passeggeri l’anno (dati Enac) – e spesso è citato come prova dell’inutilità di una strategia nazionale pianificata dall’alto. La Sacbo, partecipata da Sea, Comune e Provincia di Bergamo, Ubi banca e Italcementi, ha chiuso il 2011 con utile a 10 milioni (12 nel 2010), fatturato che sfiora i 100 e margine lordo di 22 milioni, un debito sostenibile a quota 33 milioni e 180 milioni di investimenti programmati da qui al 2014. Tuttavia si tratta di un’eccezione.
Oltre che quelle di Orio, calcola l’Iccsai, da Ryanair dipendono le sorti di Bologna, Treviso, oltre a Palermo e Lamezia Terme. Roma Ciampino e Trapani, con percentuali di offerta intorno al 90%, in pratica servono soltanto il vettore low cost irlandese. Verona e Olbia devono ringraziare la Meridiana dell’Aga Khan, mentre Rimini e Catania la Wind Jet di Pulvirenti, entrambe in difficoltà. Una dipendenza gravemente nociva per la salute finanziaria degli scali. Per un motivo molto semplice: i Comuni e gli altri enti territoriali sono costretti a incentivare la società di O’Leary per tenere in vita i piccoli scali locali. E, di conseguenza, a chiedere all’Enac congrui adeguamenti tariffari.
L’esempio più recente è il Catullo di Verona, che controlla anche il piccolo scalo di Montichiari (BS): ha chiuso il 2011 con un buco da 26,6 milioni di euro, e 7 milioni l’anno di presunti contributi a Ryanair per atterrare e decollare dalla città scaligera. Soldi sui quali l’Ue ha avviato un’istruttoria in seguito all’esposto presentato da Meridiana. Tra i soci del Catullo c’è anche la provincia di Bolzano, che per il suo scalo ha speso 45 milioni di euro dal 2006 a oggi, ma l’unica compagnia che ci volava, l’Air Alps, non naviga in buone acque. Il caso scaligero segue a distanza di pochi anni la procedura europea del 2007 nei confronti della Regione Sardegna, che dal 2001 ha finanziato con 43 milioni Ryanair attraverso la controllata Sogeaal, per rendere attrattivo lo scalo di Alghero. Aiutini che sui bilanci delle società di gestione – controllate e generosamente foraggiate da enti locali e camere di commercio – lasciano poche tracce. Sui bilanci, invece, sono evidenti i risultati della gestione pubblica.
Tanto per citarne alcuni, Parma nel 2010 ha bruciato 4,7 milioni, Forlì – rosso di 5,5 milioni nel 2011 – ha perso 40 milioni tra 2004 e 2010 con l’Enac che ha avviato un bando internazionale per salvare Seaf, la società di gestione, mentre la Procura ha iscritto 6 persone sul registro degli indagati, tra cui l’ex sindaco Franco Rusticali (Pd) con l’ipotesi di bancarotta fraudolenta. Crotone ha sperperato 6,6 milioni tra 2009 e 2010. A Siena, invece, quest’estate la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio di Giuseppe Mussari, allora presidente del Monte dei paschi. Gli inquirenti sospettano che il bando per la privatizzazione dello scalo di Ampugnano sia stata pilotata a favore di un fondo partecipato dalla Cassa depositi e prestiti e della Kfw tedesca.
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«Posso capire che un territorio sovvenzioni una o più compagnie aeree, ma solo con obiettivi definiti e attraverso una gara pubblica. Bisogna poi fare una distinzione tra sconti tariffari e riduzione degli oneri delle infrastrutture aeroportuali. In questo caso il gestore li può fare soltanto se sono compatibili con l’equilibrio economico: posso anche far atterrare i vettori gratis se i ricavi che derivano dai servizi collaterali, come la ristorazione, li compensano», spiega Ugo Arrigo, ordinario di Scienza delle finanze all’Università di Milano Bicocca.
Per l’economista liberale, da tempo critico sui “piani aeroportuali” dell’esecutivo di turno, i modelli da cui l’Italia dei micro scali potrebbe trarre spunto sono due, diametralmente opposti: quello britannico e quello spagnolo. Nel primo caso ognuno va per sé: l’antitrust inglese nel 2009 ha costretto la Baa, società privata del gruppo Ferrovial che gestisce gli scali londinesi, a vendere Stansted e Gatwick e lo scalo di Glasgow, per intensificarne la competizione e migliorarne il servizio. Dall’altro lato c’è Aena, il gestore pubblico iberico che, sebbene oggi sia schiacciato da 14 miliardi di debiti, in una decina d’anni è riuscito a incrementare il turismo verso il Paese sviluppando gli scali periferici grazie al low cost.
Arrigo individua una terza via: «Una privatizzazione in cui il gestore locale stringa accordi con le compagnie estere per fare da hub a danno, però, degli operatori nazionali. Ad esempio Verona per Lufthansa o Torino per Air France». L’Italia, manco a dirlo, sta seguendo un percorso ibrido. Il protagonista è Vito Gamberale, numero uno del fondo F2i – partecipato dalla Cassa depositi e prestiti e dunque dal ministero dell’Economia – che si è ritagliato un ruolo da mister “risolvi problemi” per gli enti locali indebitati, costretti a vendere i gioielli di famiglia per rispettare i vincoli del patto di stabilità. F2i è entrata in Sea con un cospicuo investimento in Sea, nella torinese Sagat, ed è azionista di Gesac, gestore dell’aeroporto di Napoli Capodichino, acquisito proprio dalla Baa, e di quello di Firenze.
«Già oggi il mercato fa vivere o meno un aeroporto, quello che è accaduto a Bergamo non è accaduto ad Ancona, a prescindere che il gestore aeroportuale sia a capitale pubblico o privato, perché l’industria è vincolata da molti parametri indipendenti dall’azionariato, come quelli ambientali», spiega Nino Cortolillo, membro della segreteria generale della Filt Cgil, che ai liberisti obietta: «Quando Fiumicino fu venduto a Gemina, chi ha comprato si è ripagato l’investimento non destinando gli utili allo sviluppo dello scalo. Al contrario dagli anni ‘90 sul sistema di Milano (a maggioranza pubblica, ndr), fatti salvi i dividendi che gli azionisti hanno staccato, tutti gli utili sono andati a nuovi investimenti».
Oliviero Baccelli, docente di Economia e politica dei trasporti alla Bocconi di Milano, cita la Toscana – azionista di minoranza al 4,8% di Adf, gestore dell’aeroporto di Firenze e al 16% di Sat, gestore di Pisa, entrambi quotati – come esempio di ente che fa lavorare forzosamente in sinergia i due scali minacciando di bloccare la nuova pista di Firenze se non sarà creata un’unica società di gestione per il sistema toscano. Alla confusione di ruoli dei gestori locali, per Baccelli, si affianca una rigidità della normativa italiana sulle società di gestione, che non prevede vie di mezzo: o un aeroporto è aperto 24 ore su 24 – con tutti i costi fissi che comporta l’assistenza al volo, dalla torre di controllo alle dotazioni di sicurezza – o non lo è. «In Spagna e Francia ci sono molte strutture aperte stagionalmente, con logiche molto vicine all’andamento della domanda», dice Baccelli. Sul piano aeroporti Baccelli la vede così: «È la logica privatistica che deve prevalere, ma è necessaria una visione d’insieme dello Stato non nel ruolo di finanziatore quanto nel coordinamento dell’intermodalità, e duque degli investimenti pubblici per la costruzione di strade e autostrade. E per gli adeguamenti tariffari, che non possono seguire solo un gestore».
L’essere cattedrali nel deserto – in un report sul settore Unicredit sottolinea come, Malpensa e Fiumicino esclusi, soltanto Palermo Punta Raisi, Pisa Galileo Galilei e Torino Caselle sono raggiungibili su rotaia – non rende i piccoli scali attraenti per il traffico merci. «Il traffico merci nazionale e internazionale è concentrato nei due grandi sistemi aeroportuali di Milano Malpensa (con una quota del 50,6%) e Roma Fiumicino (17,1%), e nell’aeroporto di Bergamo (12,6%); complessivamente nei tre aeroporti viene movimentata una quota di merce superiore all’80%», scrive ancora l’Istat nel suo report.
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(Fonte: Istat).
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Riccardo Sciolti, amministratore delegato di Mistral Air (il vettore cargo di Poste Italiane), spiega: «A differenza del trasporto intercontinentale il trasporto aereo domestico e regionale in Europa è poco sviluppato. Sebbene l’Italia potrebbe fare eccezione, perché siamo lunghi 1.200 km e abbiamo isole con centri di produzione industriale e assorbimento importanti, i distretti non presentano delle concentrazioni sufficienti a fare massa critica per rendere economicamente vantaggioso il trasporto merci e componentistica via aereo».
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Tipologia merci trasportate (Fonte: Certet Università Bocconi)
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In altre parole, nessuno caricherà mai un cargo con le scarpe prodotte nel distretto delle Marche per venderle in Sicilia. C’è poi il tema investimenti. A detta degli operatori, soltanto uno scalo in Italia ha le caratteristiche geografiche (al centro di una delle aree a più alta densità di imprese e con una rete stradale funzionante) e “fisiche” (potenzialmente due piste lunghe più di 3 km) per diventare già oggi uno scalo specializzato nel settore: Brescia Montichiari. Eppure, riflette Sciolti, «la manifattura prodotta al Nord Italia oggi viene trasportata via gomma a Francoforte e da lì spedita in Asia e in America (il cosiddetto “aviocamionato”, ndr)». «Per le merci è molto più importante», conclude il manager, «il contesto industriale, e dunque la capacità di assorbimento della produzione di un territorio, le infrastrutture e dunque i collegamenti e una ricettività in termini di snellezza delle procedure doganali, rispetto all’esistenza di un hub gestito da un vettore di bandiera».
Fabrizio Dallari, direttore del centro di ricerca sulla logistica (C-log) dell’Università di Castellanza, osserva: «Non esiste un distretto che ha la fortuna di avere un aeroporto che funzioni come gli interporti ad esempio di Ravenna per le argille, di Livorno per il legname o di Sassuolo per le piastrelle. Non c’è un aeroporto per le scarpe Tod’s prodotte nelle Marche, ma un servizio di navettaggio gestito da Dhl verso Orio al Serio o altri aeroporti». Il motivo è che molte merci vengono consolidate da spedizionieri che lavorano su concessione dei grandi carrier come Ups, Dhl e FedEx. Ad esempio Freschi -Schiavoni, che raccoglie merci con destinazione Australia e America convogliandoli nei magazzini di Peschiera Borromeo, una sorta di “aeroporto fuori dall’aeroporto”, e impacchettandoli per Swissair o Lufthansa già con la lettera d’imbarco scannerizzata, e i controlli già compiuti ai fini della sicurezza. Queste merci viaggiano in camion fino a Francoforte. L’aviocamionato, secondo uno studio dei consulenti di Roland Berger per Sea, oggi vale il 45% del mercato cargo del sistema milanese.
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Fonte: studio Roland Berger per Sea.
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Un trend difficile da invertire, per un motivo preciso: «La logistica delle merci italiane è in mano a società tendenzialmente tedesche o francesi, tranne Bartolini. E dunque le merci raccolte nei distretti prendono l'aereo non negli aeroporti dei distretti, ma attraverso l’aeroporto di riferimento dello spedizioniere», conclude Dallari. Tant’è che la sede Ue di Tnt è a Liegi, quella di Ups a Colonia, e l’unico caso europeo di cargo “di bandiera” è quello della lussemburghese Cargolux. In altri termini, sta al singolo scalo – e dunque in gran parte agli amministratori locali che lo gestiscono e ne sono espressione all’interno del consiglio d’amministrazione – avere la capacità di rendersi appetibile sul mercato. E non dipendere sempre e comunque dalle tasche dei cittadini.
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Questo articolo termina poi con queste parole: "Potrebbe interessarti anche":
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Anche in questo articolo, scrivono dell'Aeroporto Catullo e dell'Aeroporto di Montichiari che sono sempre sotto le lenti della stampa, come esempi di mala gestione... e visto che i due aeroporti sono gestiti da aziende pubbliche... questi diventano degli esempi di mala gestione... pubblica!!!

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